«I miei dipinti li lascio a maturare, li realizzo e poi li metto da parte: se quando li riprendo mi piacciono ancora, forse significa che è una buona opera. Perchè spesso vengono fuori anche cose brutte, sai, l’ispirazione è uno stato di grazia difficile da descrivere, e ricordo questo me lo disse anche de Libero». Ieri, domenica 15 febbraio, si è chiusa la mostra di pittura alla pinacoteca comunale di Gaeta di Normanno Soscia, in una giornata acquerello di pioggia su un golfo che respirava i suoi stessi colori. Un maestro, Normanno, che ho avuto la fortuna di conoscere in un incontro privato nel suo studio di Itri, sua città natale. Un maestro che ho avuto la fortuna di ri-conoscere anche all’interno delle sale bianche di una esposizione, quel bianco che fa luce da sé ad opere e personaggi.
«Quando dipingo figure umane – mi spiega Soscia – ne riconosco familiari tratti somatici soltanto in un secondo momento. In questo “Banchetto verde con chitarrista”, ad esempio, ora riconosco parenti ed amici e per questo ho scritto i loro nomi». Normanno, a me sembra di intravedere anche de Libero in uno dei tuoi dipinti. Ci avviciniamo all’opera in questione, “Massaggiatori per signora con spettatori”: «Oddio, Simone, è vero. Non ci avevo mai fatto caso, ma adesso continuerò a vederci sempre e solo lui». Caso o volontà si mescolano sulla stessa tavolozza, il fatto è che quei baffi paiono i suoi – del poeta di Fondi -, persino l’esilità della sagoma e l’assenza delle mani, presumibilmente nelle tasche. «De Libero vestiva spesso panataloni di velluto, era piuttosto schivo e io ho avuto la fortuna di incontrarlo solo tre o quattro volte, indimenticabili. Come quando, un po’ seccato, fu quasi costretto ad accogliermi nella sua casa romana: ero giovanissimo, avevo recuperato il suo indirizzo e volevo a tutti i costi che vedesse i miei bozzetti. Sull’uscio mi disse: “Cosa vuole? Come ha fatto a trovarmi?”. Non era maleducazione, soltanto profondo rispetto dell’intimità e, dunque, delle persone». Poi, Normanno, ti fece entrare? «Certamente. Alla fine mi liquidò con questa frase: “Strappi, strappi sempre, butti via e ricominci. Buona fortuna”; forse è con quel consiglio che divenni pittore».
Lo è diventato certamente, Normanno, che ha esposto in tutto il mondo (alcune locandine, come quella di Chicago, erano esposte a Gaeta) e in tutti i continenti ha estimatori collezionisti della sua opera. Ad alcune è particolarmente affezionato, tanto da non volerle assolutamente vendere, pur se particolarmente richieste. Lavora su tela, su legno, in ogni caso su supporti rigidi perchè il graffio è una cifra del suo stile. «In fondo il graffio è una linea», ammette. Una linea dura, quasi epidermica che si riflette anche nella decisione del tratto. «Spesso disegno sogni che decifro qualche anno più tardi, o a volte non decifro mai». Di segni e di sogni è permeata la materia del suo dipingere, eppure sempre tenacemente ancorato alla terra, alla casa, alla famiglia. Nel quadro “La famiglia dell’architetto”, ad esempio, gli uomini sono più grandi della casa e la casa pare un giocattolo per bambole: a me è parso voler dire che case siamo noi, altro riparo non possiamo fornire che noi stessi, coi bambini che giocano sotto di noi come in stanze corporee, sanguigne. Infine il messaggio di quell’“Arcolbaleno con spettatori” umano: «Sembra una scena triste perchè questa donna madonna ha un volto ritratto in una smorfia quasi di dolore, eppure qualcosa succede e squarcia questo dolore». Leggevo in questi giorni “Stalin + Bianca” del giovane Iacopo Barison (Tunuè) e il protagonista pare spaventato dalla scomparsa degli arcobaleni. C’è chi non ne ha visto mai uno in vita sua. Normanno ne fa un fenomeno dalla dimensione umana, ancora a dire che lo spettacolo siamo soltanto noi: colorati, cerchi a metà, sagome con slancio.

Simone di Biasio
