Ho sentito una volta: “Diciamoci la verità: de Libero non è una rockstar della poesia”. Ma cosa significa essere una rockstar? Della poesia, poi? Sicuramente non è l’esuberante Allan Ginsberg; non è il dissacrante Pasolini; e non è neanche Borges l’erudito. Che poeta è de Libero? Tutte le poesie di de Libero sono raccolte in un volume edito da Bulzoni Editore, curato da Valentina Notarberardino e Anna Maria Scarpati. Ogni capitolo racchiude un libro. Le opere vanno da quelle più recenti alle prime scritte, con un percorso a ritroso del tempo; a meno che non si voglia leggerlo al contrario, come fosse un manga giapponese, per osservare l’evoluzione poetica nel tempo. Noi siamo partiti a leggerlo da “Il gran forse”, sua opera ultima, in cui è chiara ed evidente tutta l’abilità stilistico-poetica dell’autore.
Quella dell’ultimo libro sembra una poesia frammentaria, piena di fragilità e asonorità; che rispecchia, forse la condizione interiore del poeta. È una poesia molto ermetica, in cui risulta difficile già solo la lettura. I versi, infatti, sono pieni di enjambement che rompono improvvisamente la sonorità: specialmente in presenza di congiunzioni “ma, se, che, e…”. Con l’assenza quasi totale della punteggiatura l’effetto di straniamento e una difficoltà di lettura risultano totalmente disorientanti:
L’ira d’una guancia
salottiera il dolore ridotto
a un’avventura in fuga
e che ti ascolta è l’aurora
d’una parola che ritorna
al sempre d’un fiore chiuso
per secoli tra le pagine d’una
sera che si dona alle vene
senza uscita alla patria
segreta ricorre una crescita
sbocciata nell’inverno scritto
sulla neve d’un canto e
supplica l’acqua di non
dormire nella valle che dice
il sonno d’una zolla
che diventa seme.
Le poesie di de Libero sono piene di immagini, una di seguito l’altra con una rapidità per cui la lettura diventa più veloce della comprensione semantica (“la tua tomba è il nostro urlo”, Pag. 11, Don Luigi). Le immagini sembrano quadri metafisici interiori: le frasi come catene di significati che rimandano ad altri mondi, metafore di altri oggetti e altri scenari. Il colore è dato dagli aggettivi, che rendono piena la scena e l’immagine. È la presenza di allitterazioni interne e delle assonanze, al posto delle solite rime, che dà un’architettura sonora alla lirica:
che tu ricordi poco vale per me
e non può essere un filtro
il ricordo di te per me
catena è pena che lega
anche i passi d’altalena
e tu non sai se morto
o viva io non ho più te
qualche stagione la mia
porta si apre da quel tempo
ma dio non precorre chi ama?
potrei bruciare ogni bosco
per dare al vento la grande
occasione di lasciare nidi
sulla terra ansia remota
per mandarti un granello
della mia polvere
gira intanto come a te piace
il disco rovente e l’ostia
pallida in un tempo senza scampo.
Il continuo uso di pronomi personali, sia verso la dedicataria della poesia, sia verso il lettore, sembrano cercare un coivolgimento con le persone; quasi come una scialuppa di salvataggio verso l’esterno, alle persone, dai propri sentimenti interni. Tutti gli oggetti nominati nelle poesie, infatti, sono carichi di intimità, interiorità, inquietudine, strettamente personali:
La grande carezza del sonno
viene ad abitarti per un congedo
muto e senza uscita
il silenzio se ne va
umiliato testimone
e respinto già spoglio
d’una speranza al simposio
e crolla la barriera d’un tizzone
che schianta a tradimento.
L’estrema timidezza porta anche ad una sessualità appena accennata, infantile e piena di imbarazzo:
Giuoco era una volta l’amore puerile
Macchiava le dita a toccarlo
Capace d’ogni furore
Chiusa tra le reti del letto
Componeva giri di paziente attesa
Nelle figure nascoste dietro una tenda
E annegavano nella pena notturna.
Molto significativa è la scelta di Filottete come personaggio mitologico. Nella tragedia di Sofocle, durante la guerra di Troia, Filottete viene abbandonato per un morso di vipera che gli ha infettato il corpo. Un oracolo predice in maniera tarda ai greci che avrebbero vinto contro Troia solo grazie all’arco di Filottete. Allora Odisseo e il figlio di Achille, Neottolemo, ingannano Filottete, riuscendo a sottrargli l’arco. Alla fine però, colto dal rimorso e dalla pietà, Neottolemo riporta l’arco al suo proprietario, che verrà trasportato a Troia.
FILOTTETE
o silenzio paese pallido
il tuo corpo maculato
fetore di spina dolosa
le notti raminghe
i giorni piagati
liberami da questa rondine
che stride senza uscita
delle vene tu spettro d’anima
ricucita e cerchi una
lapide col tuo nome
la tua sete ricorda i limoni
il grido del gallo triste
è compagno dell’alba straniera.
Così de Libero si sente: un poeta abbandonato alla fine della vita, morso da un male e dal veleno di vipera. Ingannato e derubato. In quest’ultimo libro, morte e ricordi sono le tematiche che ricorrono spesso e, forse, nelle liriche più belle e sincere.

Elvio Ceci

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