«le parole sono cibo gettato/ a terra perchè altre parole lo mangino.»

dalla poesia “Workshop”

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Devo dire subito una cosa. Il libro di cui sto per parlarvi ha venduto circa 250.000 copie e non è stato scritto da Benedetta Parodi, né parla di cucina, e nemmeno di Mr. Grey e sesso scatenatissimo. Rassegnatevi, non ci arriverete mai: si tratta di un libro scritto in versi, “A vela in solitaria intorno alla stanza” (Fazi). Non accade in Italia, mi si perdoni l’ovvietà, bensì oltreoceano, mi sia concessa questa seconda ovvietà. Di certo meno ovvia appare la poesia di Billy Collins alla quale mi sono avvicinato come ad un Iphone13 nel 2020: vabbè, sì, la solita americanata, ma che cambia? E invece cambia, cambia il modo di leggere versi, cambia il modo di scriverne, cambia la direzione dello sguardo.

«Mi sembra solo ieri che credevo/ che sotto la pelle non ci fosse altro che luce./ Se mi tagliavi non potevo che splendere./ Ma ora quando cado sui marciapiedi della vita,/ mi pelo le ginocchia. Sanguino» (“Compiendo dieci anni”). Ho sanguinato pure io, mi si sono aperte lacerazioni ancora insanate nel percorso di conoscenza del fare, radice di poesia. Chi si aspetta una raccolta di componimenti si sbaglia, sebbene il volume raccolga scritti già apparsi in precdenti libri. Questo di Collins è un romanzo autobiografico in versi. «E a volte compare qualcuno alla finestra/ che mi guarda mentre faccio lezione alla carta da parati,/ interrogo il lampadario, rimprovero l’aria» (Schoolville): il poeta è costantemente spiato dentro casa sua. Poetry is watching you.

«Ma la sola cosa che vogliono fare [della poesia]/ è legarla con una corda a una sedia/ e torturarla finché non confessi./ La picchiano con un tubo di gomma/ per scoprire che cosa davvero vuol dire» (Introduzione alla poesia). Forse perché ha sbagliato, forse perché davvero ci spia e qualcuno se ne accorge, poi denuncia questa violazione della privacy. «Guardo fuori da un lato, poi dall’altro,/ spostandomi di stanza in stanza/ come tra nazioni o parti della mia vita» (“Centro”). Capitano anche incubi, «ma il cuore è senza posa e si alza/ dal corpo nel mezzo della notte,/ lascia la camera trapezoidale/ con i muri spessi e senza quadri/ per sedersi da solo al tavolo di cucina/ e scaldarsi un po’ di latte in tegame» (“La casa notturna”). Si fa a pezzi il « il corpo – quella casa di voci», come si fa a pezzi il libro – quella casa di versi.

Allora la poesia di Collins si occupa di tutto, il poeta sale sull’aereo per andare di stanza in stanza, va a pescare in bagno, corre lungo il perimetro dei muri per tenersi in forma, visita angoli sconosciuti anche a quella casa. Con questo piglio nascono poesie come “La sigaretta migliore”, oppure quella con e a un imbianchino (“Martedì, 4 giugno 1991”), o ancora quell’altra ispirata a un calendario di donne nude (“Pinup”); così suonano bene persino termini come jiiggare (particolare tipo di pesca) o la «genuina muccosità di sé» (si provi a leggere ascoltando contestualmente “Atom earth mother”, ma non ci si allontani troppo dalla propria stanza).

Il poeta viene colto dalla poesia persino in attività sciamaniche: «Questo è il cerchio assoluto della geometria,/ dico alla crepa nel muro» (“Disegno”). E tu vieni colto dal non-sense di “Pescando sul Susquehanna in luglio” che così principia: «Non sono mai stato sul Susquehanna a pescare» e ti dà una botta in fronte secca, o stordito mentre titola: “Trito un po’ di prezzemolo mentre ascolto la versione di Art Blakey di Three Blind Mice”. Persino irriverente quando usa quest’altro titolo: “Leggendo un’antologia di poesia cinese della dinastia Sung, mi soffermo ad ammirare la lunghezza e la chiarezza dei titoli”. Il poeta americano sente di avere un debito con tutto e tutti quanti lo han preceduto, specie nei confronti della tradizione italiana; scrive anche un “Sonetto” davvero stambo, che ragiona su di sè e conta i suoi versi in un countdown «dove Laura dirà a Petrarca di deporre la penna».

Indubbiamente Collins è poeta geniale ed evidentemente americano, ma vicino anche alla Szymborska per linearità, stile, ispirazione. C’è tutto un dibattito attorno a questa tipologia di poesia, che taluni critici definiscono banale e priva di contenuto. In Italia attendiamo il primo poeta che scriverà “sticazzi” in rima con gli arazzi che contornano certa critica: le 250.000 copie potrebbero essere assicurate. A parte qualche trovata a me stesso ai limiti del comprensibile, Collins è arrivato, arriverà con molta probabilità anche “A uno sconosciuto nato in un paese lontano tra centinaia di anni”, parafrasando Mary Oliver.

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Impressionante la capacità multitematica del poeta. È in grado di parlare d’amore come forse hanno fatto i più grandi (c, non a caso, “contestati”) alla Neruda o Prévert: «Tra non molto uno di noi andrà di sopra a letto/ e l’altro lo seguirà./ Poi scivoleremo sotto la superficie della notte/ per miglia d’acqua, inabissandoci/ nel fondo buio e senza suoni/ fino a quando il peso dei sogni ci spingerà ancora più a fondo,/ sotto gli strati argillosi della roccia,/ sotto gli strati della fame e del piacere,/ fin dentro le ossa rotte della stessa terra,/ dentro il midollo dell’unico posto che conosciamo» (“Ossobuco”). È in grado di fare l’amore con la Dickinson: «Non si può liquidare con poco/ la complessità degli indumenti intimi da donna/ nell’America dell’Ottocento,/ e procedetti come un esploratore polare/ tra ganci, cinghie, corde/ fermagli, cinturini, corsetti di stecche di balena/ veleggiando verso l’iceberg della sua nudità» (“Spogliando Emily Dickinson”).

Collins è in grado di parlare di musica e fare di un animale un musicista: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare/ (…) mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso/ silenzio il famoso assolo per cane che abbaia,/ coda infinita e causa prima dell’affermarsi/ di Beethoven come genio innovativo» (“Un altro motivo per cui non tengo la pistola in casa”, qui quasi una identificazione anti-americana), anche se ci ricorda che «l’accordo giusto può farci piangere/ ma nessuno ascolta le scale,/ nessuno ascolta la loro madre» (“Lezioni di piano”), ma ancora che «il passato non è nulla/ (…) un ripostiglio insonorizzato in cui Johan Strauss/ compone un altro valzer che nessuno può ascoltare». È in grado di parlare, infine con la morte e col sesso: «Dovrei dire che a volte tengo addosso il pene/ mi è difficile ignorare la tentazione./ Allora sono uno scheletro con pene alla macchina da scrivere./ In queste condizioni scrivo straordinarie poesie d’amore,/ che perlopiù sfruttano la connessione fra sesso e morte» (“Purezza”); «Ed ora mio padre, dopo una vita di lavoro,/ porta un cappello di terra/ e in cima a quello,/ uno più leggero di nube e cielo – un cappello di vento» (“La morte del cappello”)

L’ultima poesia, di congedo, è “La fuga [o il volo, si sarebbe potuto tradurre] del lettore”. Chi perde paga da bere.

 N.B. Un appunto a matita: «Abbiamo tutti occupato il perimetro bianco come fosse nostro/ e abbiamo preso una penna anche solo per mostrare/ che non ce ne stavamo in poltrona a oziare a voltare pagine;/ che avvevamo impresso un’idea sul ciglio della strada,/ avevamo piantato un’impressione sul bordo/ (…) e non posso dirvi/ quanto la mia solitudine divenne più profonda,/ quanto intenso ed esagerato mi sembrò il mondo davanti a me, quando trovai su una pagina/ alcune macchie che sembravano di unto/ con accanto scritto a matita tenera -/ da una bella ragazza, lo vedevo bene,/ che non avrei mai incontrato -/ ‘Perdonate la macchia d’insalata d’uova, ma sono innamorata» (“Marginalia”).

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Simone di Biasio

Simone di Biasio

Simone di Biasio è giornalista pubblicista freelance. Nel 2013 pubblica il suo primo libro di poesia, "Assenti ingiustificati", con la prefazione di Claudio Damiani. È Presidente dell'Associazione Libero de Libero.
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