“Tutti gli spostamenti più tragici sono quelli di una casa” (Yang Lian)
“Uomo radice”, “alberografo”, “cercatore d’alberi”, poeta. Quale definizione per Tiziano Fratus? Ma soprattutto, occorre definirlo? Probabilmente ci ha pensato lui stesso con “Un quaderno di radici” appena edito da Feltrinelli nella collana “Zoom” riapre la traccia avviata dall’editore con la collana “Poesia” che dal 1958 al 1982 vide stampate le pagine dei più grandi poeti del tempo (Arbasino, Majakovskij, Pound, Prévert, Valéry). Dopo 30 anni (con la parentesi Erri De Luca) si torna con un’importante distinguo: niente libri cartacei, ma digitali. Sembra un suggerimento dello stesso bergamasco Fratus, verso una ecologia del verso: “Per fare il ramo ci vuole l’albero/ per fare l’albero ci vuole il bosco”, per fare un libro non occorre un bosco. Con lui pubblicazione di inediti in ebook anche per Gianni Marchetti, autore de “La voce dei grandi edifici”: due titoli scelti nemmeno troppo a caso, con lo stridere assonante di radici/edifici, con la commistione casa/albero e la sfida voce/quaderno, oralità/scrittura come fosse una interrogazione sul fare poesia ora, su questi tablet, smartphone e altri apparecchi quotidiani.
Mi permetto di dire due cose: primo, non posseggo ancora un e-reader, ho pertanto stampato le poesie di Tiziano Fratus perchè ho bisogno di strapazzarle, evidenziarle, rileggerle; secondo, la copertina proprio non attrae (stesso discorso per i vari Cvetaeva, Sanguineti, Bukowski ripubblicati in digitale): sì, d’accordo, non si giudica il libro da una copertina, però farla assomigliare a una immagine generata automaticamente da google books è forse eccessivamente incurante della bellezza della poesia. Scrive Paolo Armelli su Wired: “Questo perchè un tale lavoro richiede investimenti e qui ci si ricollega a un’altra barriera d’ingresso della poesia nel mondo digitale: quella economica. I lettori di versi sono già purtroppo una nicchia nel mercato editoriale tradizionale, figurarsi in quello elettronico, che è a sua volta una nicchia (seppur in crescita). Il New York Times stima che nel 2013 si siano prodotti negli Stati Uniti appena 2050 libri digitali di poesia, ovvero il 20% dei libri di poesia pubblicati in totale; il Kindle store italiano conta ad oggi poco più di 2700 titoli poetici”.
Tornando all’opera in sé, Fratus “homo radix” è sorprendente nell’uso della parola come degli occhi e del fiuto che ha usato per scovare lungo tutta l’italia gli oltre cento alberi secolari da proteggere e far conoscere. In “Un quaderno di radici” protegge anche la poesia e ne ha cura proprio come di una cosa viva, sempreverde. “La grandezza è segno di scarsa immaginazione”, scrive Fratus nella poesia “L’Umanità”, poi precisando che “Viviamo in un mondo/ costipato fra la carta/ e la corteccia,/ a nostalgia/ della presenza di uomini/ che non abbiamo conosciuto./ Sanguiniamo/ fra due poli / opposti/ e simmetrici,/ devoti discepoli/ del Dio del Piombo/ e di tutte le pesantezze/ ammissibili, aggrappiamo/ le sorti della vita/ alle grandi idee,/ ai grandi libri,/ alle grandi imprese”. Cè anche una “suite in vernacolo” estremamente interessante per linguaggio profondamente naturale e una raccolta di aforismi in versi sui “taccuini in foglia”.
Pubblichiamo tre poesie e un haiku estratti dal volume di Fratus.
UN IMPROVVISO SENSO DI BUIO
Penso alle mani di mia madre.
Penso ai suoi occhi che sono entrati
bussando in ogni stanza della vita.
Al suo dolore sordo che non cessava nemmeno
quando le mani cercavano di non sentire.
Penso alla solitudine cieca che l’ha smontata,
che le ha cavato via il sorriso e il pianto,
che le ha segato il futuro come la nebbia che,
nei lunghi inverni, taglia via cime ai pioppi.
Penso alle sue braccia trasparenti,
come gli arti di quegli scheletri viventi
che si ammucchiavano nei campi di cui
abbiamo dimenticato nomi e geografia.
Penso al suo buio perpetuo,
al suo rosario incarnato fatto d’ossa,
al forcipe che si è conficcata nel ventre
del pensiero, una meccanica rovesciata,
a cui non ha più saputo cambiare verso.
Penso a quelle mani che erano di madre,
e che ora vivono dentro le mie, nascoste,
senza riuscire a stringere un ciuffo d’erba
- MARIA AVEVA I CAPELLI LUNGHI
Scordava i pensieri
capricciosi sul sedile del tram.
Cuciva le notti alle albe
passando come un ago
negli appartamenti obliqui
dei lunatici seriali.
Camminava sulle mani
a testa in giù per ammirare
le insolite abitudini
di un città capovolta:
«Sarà questo l’unico modo
di viver la vita dei vivi?»
I suoi capelli solleticavano
il fondoschiena, si facevano
ragnatela e selva di sguardi accesi,
al buio poteva strizzarli
per farsi luce e restare in bilico.
Scriveva lunghe lettere
ai poeti dimenticati,
le spediva con un gesto delle mani.
S’immaginava uomo
tutto spalle e mistero.
Dentro un bosco antico
c’era un castagno cavo.
Dentro il castagno cavo
c’era lei, inginocchiata.
Fra le mani una noce appena
spaccata che si scaldava.
Possedeva un quarto
dell’età dell’albero,
nessuno l’aveva detto
o scritto ma lei lo sentiva.
Pensava che l’unica cosa
da insegnare ai giovani
fosse accudire
la nascita della fragilità.
Ripararsi dalla tempesta
è cosa giusta, addomesticare
il canto dei venti un sogno.
Voleva farsi radice
per temprare l’intimità
delle talpe nella tana,
arricciate alla cartografia
delle pelli e delle code.
Fare apprendistato alla scuola
dei ponti e delle strade.
Pregare le stelle e i sassi,
i deserti e le montagne.
Voleva diventare un estuario,
fare dei suoi capelli
lunghi il corso accidentato
d’un fiume che si partorisce.
Assaggiava le dita per capire
se sapessero di pioggia e nebbia.
Poi s’è fatta donna.
Gli anni sono cresciuti,
i capelli si sono accorciati.
I desideri, ora lo sa,
vanno accomiatati
per intero, mai a pezzi
- STORIA D’UNA LINGUA DI VETRO
Non tanto
la fatica del sudore
tolto alla fronte,
non tanto
i capogiri dei coltelli
in cucina,
piuttosto
la luce fioca
dentro la nebbia,
piuttosto
i pomeriggi al tepore
sotto le coperte,
piuttosto
le carezze ai gatti
sopra le ginocchia.
Non tanto
i litigi fiaccati
graffiando i soffitti,
piuttosto
il silenzio degli occhi
che si fanno stella,
non tanto
il peccato che dilava
dal di dentro,
piuttosto
il riverbero della notte
che si spiaggia,
non tanto
la marea di scatti
che si rinnovano a cascata,
piuttosto
la fragilità presunta
delle fondamenta:
la lingua è una creatura
che sa indietreggiare
a occhi chiusi
- HAIKU DEL TRALICCIO
Si addensano alle porte della città
borbottano una lingua tutta loro,
sono un ottimo punto di ristoro prima della società

Simone di Biasio

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